Nel 1986, Steve Jobs ingaggiò il famoso graphic designer Paul Rand per creare il marchio e l’identity della sua nascente azienda (la NeXT) per la “modica cifra” di 100.000 dollari. All’epoca Rand era già famoso a livello internazionale e vantava una grossa esperienza nel campo della corporate communication. Soprattutto, aveva già disegnato il marchio del maggior competitor di Jobs: la IBM.
Jobs gli chiese se poteva mostrargli alcune versioni del marchio. Rand rispose più o meno: «No, io risolverò il tuo problema e tu mi pagherai e non è necessario che utilizzi la mia proposta». Aggiunse poi «Se vuoi diverse soluzioni parla con qualcun altro» a testimonianza del fatto che Rand avrebbe dato a Jobs la sua (unica) soluzione corretta, che non necessariamente sarebbe stata la soluzione “giusta”.
Fu così che Rand si presentò al “cliente” Jobs con un folder di 100 pagine in cui spiegava dettagliatamente la sua proposta: il nome, il marchio, le declinazioni, l’dentità, le scelte fatte e il percorso grafico/creativo che le ha determinate. Fu una presa di posizione molto netta che esprimeva la piena consapevolezza di sé e dei propri mezzi e la certezza di poter garantire il miglior risultato possibile nel rispetto del brief.
Già, esattamente quello che non accade a me e credo a molti colleghi. Quante volte vi sarà capitato di esclamare “Cazzarola! Con tutte le proposte che gli ho presentato alla fine ha scelto la prima che avevo fatto, che era la migliore”. C’è un dato statistico che credo possiate confermare: un 80% dei progetti si chiude con il cliente che sceglie la prima versione della prima proposta presentata (o pensata). L’unica differenza con Paul Rand è che per arrivare a decidere di scegliere la prima il cliente te ne fa fare altre dieci modificate cinque o sei volte ciascuna. Come se il design fosse un esperimento di laboratorio in cui mettere a confronto diverse soluzioni fino a trovare magicamente quella efficace che raggiunge l’obiettivo. Il design in provetta non esiste e i designer non sono cavie da laboratorio.
La bontà di un design si dovrebbe misurare dalla capacità di rispondere alle richieste di un brief. Non è la quantità di soluzioni proposte che porta alla soluzione finale. Semmai ci avvicina, sempre ammesso che esista la soluzione finale. Esiste un numero indeterminato di soluzioni “giuste” su un brief ma non quella “definitiva”. Questo perché ogni proposta creativa può imboccare diverse strade per raggiungere un obiettivo, già solo perché ogni designer interpreta la stessa richiesta in modo del tutto soggettivo. Nonostante ciò, nei confronti del cliente ci si sente sempre in obbligo di presentare almeno n proposte (che poi figliano) per una serie di motivi:
– perché si vuole fare colpo dando la sensazione di essere prolifici;
– perché non si vuole dare al cliente la sensazione che non si è lavorato abbastanza;
– perché noi grafici abbiamo il brutto vizio di farci prendere la mano. Invece di ammazzare sul nascere delle proposte ce ne innamoriamo — in realtà è solo un’infatuazione — e le trasciniamo fino alla presentazione, perché “in fondo al cliente potrebbe piacere”. Il problema è che poi il cliente la sceglie scartandone una che a noi piaceva o convinceva di più;
– perché, sotto sotto, non si è mai sicuri di una proposta “one shot” al punto da andarla a difendere in presentazione a costo della vita. Prevale la necessità di “pararsi il culo”.
Mostrare più opzioni comporta innanzitutto un grosso impiego di tempo, perché oggi se vai dal cliente con due o tre proposte schizzate a mano su un foglio di carta, come si faceva una volta, ti guarda come se fossi un pezzente pensando tra sé e sé “Ma come, con tutti i soldi che ti do ti presenti con due pezzi di carta?“. Oggi si va in presentazione praticamente con degli esecutivi. Poi, la possibilità di scegliere su più opzioni porta quasi sempre il cliente a fare quello che ogni designer teme come la morte: il Frankenstein.
Frankenstein – Per chi non mastica di grafica viene comunemente denominato “Frankenstein” il risultato di una elaborazione grafica chiesta dal cliente a seguito della presentazione di diverse proposte creative. Di solito gli piace il concetto di una, l’headline di un’altra e il visual di un’altra ancora, e sulla base di queste sue sensazioni chiede di elaborare un’ulteriore proposta grafica mettendo insieme le cose che gli piacciono di più di tutte le proposte presentate. Ovviamente ogni proposta ha un concetto creativo e uno sviluppo grafico che fa vita a sé e non ha nulla in comune con le altre proposte se non l’obiettivo di comunicazione. Al cliente questo pare non interessare, anzi, probabilmente è convinto che scegliendo il meglio di ciascuna proposta si ottenga alla fine una “superproposta”. In realtà non è così. Il risultato finale sarà un mostro che non avrà più nessun appeal e non comunicherà più nulla. Un Frankenstein, appunto.
Esiste poi un problema a monte. Anzi, due.
Primo. A differenza dei tempi di Paul Rand oggi la professionalità e l’esperienza del graphic designer sono messe a dura prova ogni giorno dai clienti sempre più diffidenti e tendenti al “fai da te”. Hanno sempre più resistenze ad accettare la consulenza di un professionista e nonostante se ne avvalgano tendono a non prenderlo troppo sul serio. Ragion per cui presentarsi con una sola proposta espone il grafico a critiche assicurate. Critiche che di solito ci sono a prescindere e che, nel caso in cui l’unica proposta non piaccia, mettono il cammino del progetto decisamente in salita.
Secondo. Sfortunatamente non tutti i clienti hanno le idee chiare come le aveva Steve Jobs. Non sanno bene cosa vogliono e come lo vogliono, correggono il brief in corsa, fanno cambiamenti in maniera compulsiva. E se il cliente non ha le idee chiare su ciò che vuole come può averle il designer? Ecco che allora è necessario esplorare più strade e presentarle tutte sperando che il cliente una volta che le vede si illumini… e decida di fare il Frankenstein.
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