La presentazione della candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2024, con relativo marchio istituzionale, ha avuto un certo eco (soprattutto tra gli addetti ai lavori del settore grafico creativo), sicché anche io ho deciso di esprimere il mio parere non richiesto, nonostante in questo periodo non abbia nemmeno il tempo per fare uno starnuto. Facebook da tempo non è più un semplice social network ma un vero e proprio amplificatore degli umori della gente. Umori quasi sempre pessimi. Il social è diventato un muro del pianto virtuale, un luogo dove sfogarsi ed esternare la propria indignazione, disappunto e disprezzo verso qualsiasi cosa e verso chiunque. Su Facebook c’è un partito che ha la maggioranza assoluta: il partito preso.
Le notizie corrono alla velocità della luce. Nel giro di poco tempo diventano di pubblico dominio e in un attimo parte la corsa a dissacrare, accusare, replicare alle accuse, contro replicare alle accuse con altre accuse, ridicolizzare, difendere, lamentarsi, insultare o “dileggiare” (per usare un eufemismo).
Da tempo sostengo che Facebook è come un bar, un “dopolavoro” (frequentato in orario di lavoro) dove si dicono cose in libertà (pure troppa), e dove non di rado prevale la gara a chi la spara più grossa. La differenza sostanziale col bar reale è che alla cazzata detta o fatta assistono i soli avventori, riconducibili a poche decine. Ma nel bar virtuale di Facebook gli “avventori” sono migliaia. Decine di migliaia. Centinaia di migliaia. Tutti presenti e attivi. Un post, un tweet (perché anche Twitter non è da meno) o un commento caustico, ironico o dissacrante ci illude di essere fighi alimentando in noi la falsa convinzione che la colpa sia sempre di qualcun altro, che il problema sia altrove, che la soluzione è in mano nostra e chi non ci ascolta la sfiga lo colga. Condividere un’opinione, un pensiero o una critica ci espone in tempo reale al giudizio degli altri utenti, che come noi hanno lo stesso diritto di esprimere la propria. Il che non sarebbe un problema se venisse usato un linguaggio consono ed educato.
Questo fenomeno è ben visibile su Facebook nelle pagine che rappresentano una specifica categoria professionale, o nei gruppi monotematici che condividono una passione o un interesse. Lì si arriva addirittura a un fanatismo tale da far arrossire i membri dell’ISIS.
Come graphic designer seguo con maggior attenzione una serie di pagine che hanno come finalità la condivisione di informazioni ed esperienze relative alla mia professione.
Non le seguo in maniera assidua perché il tempo non me lo consente ma a volte non resisto, e a costo di dover poi correre per recuperare tempo mi soffermo su alcune discussioni perché trovo che siano delle vere e proprie esperienze sociologiche. L’ultima a cui ho assistito è stata per l’appunto quella relativa alla presentazione del marchio per la candidatura della città di Roma alle olimpiadi del 2024. Presentazione che ha suscitato moti di indignazione e scatenato la rabbia da tastiera di intere community di graphic designer e creativi che hanno aspramente criticato il marchio che rappresenta il comitato olimpico. Questo cliché si ripete ogni volta che viene presentato un marchio o una campagna pubblicitaria, soprattutto se si tratta di istituzioni. Quando vengono postati in una delle suddette pagine, buttati come brandelli di carne in una gabbia di leoni affamati, si scatena l’inferno. La condivisione poi fa il resto alimentando la cultura del massacro.
Ora, ho visto numerosi lavori finire esposti al pubblico ludibrio. Alcuni effettivamente erano discutibili, altri magari un po’ meno ma la cosa che li accomunava era lo sdegno generale della community, che per giorni inveiva contro il marchio di turno, arrivando per bocca, pardon per tastiera, degli elementi più esagitati anche all’insulto di un certo spessore. Insulto che magari era rivolto al marchio ma che comunque non era giustificabile, perché dietro quel marchio c’è un collega che lo ha realizzato, che magari un minimo andrebbe rispettato. Ma si sa, nelle comunità di designer e creativi corre un po’ di invidia.
Ma veniamo alla pietra dello scandalo: il marchio del comitato di Roma città candidata. Faccio una premessa, anzi due.
La prima. Credo che ognuno di noi, in virtù della propria esperienza, sensibilità, percorso professionale e gusto, avrebbe disegnato il marchio in modo diverso, quindi va da sé che non esista un modo universale di giudicare il marchio bello o brutto in assoluto, a meno che non si nomini un oracolo superpartes che detenga la verità assoluta. Da un punto di vista tecnico esecutivo ci sono delle regole sulla composizione visiva che andrebbero rispettate. Ma il condizionale è d’obbligo.
Seconda. Il marchio della città candidata ha un ruolo tecnico, istituzionale, una valenza poco più che formale. Serve a identificare, a un un ristretto gruppo di persone (il Comitato Olimpico Internazionale), il comitato promotore della candidatura della città e non costituisce in alcun modo titolo di preferenza. Un po’ come il marchio FCA, un altro che quando uscì venne preso in giro senza capire che quel marchio non era un brand e che sarebbe apparso sugli annual report, sui documenti finanziari e in qualche carta intestata.
Diverso è il discorso del marchio ufficiale, che ha un valore sportivo e commerciale, si rivolge al pubblico mondiale e deve essere “attraente” per gli sponsor.
Analizzando il marchio della candidatura di Roma bisogna considerare almeno un paio di aspetti, distinti ma legati tra loro. Uno riguarda ciò che il marchio vuole trasmettere (il concept) e l’altro come lo trasmette (il design). Dal punto di vista del concetto trovo che il marchio sia corretto. Parla di Roma attraverso il suo monumento più rappresentativo e conosciuto nel mondo e anche se qualcuno storce il naso dicendo che è “già visto”, “stra usato” non si può dire che sia sbagliato. Al limite si può discutere sull’opportunità di utilizzare il Colosseo, la lupa, la porchetta o un piatto di amatriciana. Anche i colori sono giusti e parlano chiaramente di Italia attraverso il tricolore e l’azzurro. Tutto corretto, quasi didascalico, come nella miglior tradizione della comunicazione italiana che è rimasta al visual di una mela con scritto “Questa è una mela”.
Dal punto di vista del design pecca forse di alcune ingenuità. Il lettering poteva essere curato meglio, sia nella scelta del carattere tipografico che nella disposizione degli elementi testuali. Poteva essere tutto più compatto con gli elementi più vicini tra loro. Poteva, se, magari, chissà. Sta di fatto che per la finalità a cui è destinato svolge più che dignitosamente il suo dovere. Semmai il problema non è il marchio in se ma l’approccio che hanno certi designer nel giudicare i lavori creativi fatti da altri colleghi. L’esercizio della critica è molto difficile, soprattutto perché il confine tra l’aspetto tecnico e quello legato al gusto personale è molto sottile e spesso la critica sfocia in un attacco frontale (a volte allo stesso designer) in cui ci si appiglia a qualsiasi minuzia pur di trovare un difetto. E fa ancora più male vedere designer, magari con una certa fama e una certa autorevolezza, che sono un esempio per tutti, me compreso, avere un approccio stile Marchese del Grillo nel commentare i lavori. Si discute su schemi prestabiliti, ci si appella alle proporzioni auree, gli allineamenti, il font, centro ottico invece del centro geometrico, regola dei terzi e chi più ne ha più ne metta. Qualcuno è addirittura arrivato a criticare la prospettiva degli archi che non sarebbe corretta, quando criticare la prospettiva su un’interpretazione artistica di un soggetto sarebbe come dire che Picasso non capiva una mazza di prospettiva. Per carità, tutto giusto, tutto sacrosanto, nessuno lo mette minimamente in dubbio ma questi sono aspetti che purtroppo non rispecchiano la realtà del lavoro, e noi addetti ai lavori dovremmo essere i primi a sapere che “la mappa non è il territorio”, quello che vediamo e critichiamo è il risultato finale di un processo creativo ed esecutivo che ha molte variabili, e quelle che hanno più peso non dipendono sempre dalla volontà del designer ma dalle esigenze o richieste del committente. E non sempre si può giocare a fare i duri e puri della grafica. Come si fa a costruire una cultura della progettazione condivisa se spesso si alimenta quella dell’invidia e dell’aggressività e della critica distruttiva verso tutto ciò che non è fatto da noi?
Articles
Logo SICILIA. L’incapacità cronica italiana di comunicare il territorio.
L’Italia, un Paese “marketing disoriented”. L’Italia ha una tradizione ”pubblicitaria” che risale al periodo fascista con le campagne di propaganda in tempo di guerra. Solo a metà degli anni Ottanta però, con la diffusione della Leggi tutto…
2 commenti
Elena · 20 Dicembre 2015 alle 00:10
Finalmente un articolo che non getta fango sull’operato di un collega, se ne sono lette veramente tante.
Leggendo la tua analisi vorrei sapere a parere tuo che cosa si potrebbe migliorare a livello tecnico, quali regole a tuo avviso sono state male interpretate? Il lavoro di un collega non va sminuito o messo alla gogna, quello che vorrei avere da te è un giudizio più approfondito sul prima punto della tua analisi.
antonio_filigno · 20 Dicembre 2015 alle 13:00
Buongiorno Elena, non sapendo se ti arriva la mail lascio la mia risposta anche qui.
Ti ringrazio per l’apprezzamento. Se proprio devo esprimere una valutazione personale, dal mio punto di vista credo che il marchio andrebbe un po’ compattato, nel senso che gli elementi che lo compongono sono un po’ distanti tra loro e se vogliamo ridondanti. la parte testuale poteva essere ottimizzata scrivendo “ROMA2024” su una riga e “CITTÀ CANDIDATA” sotto, più piccolo, giustificato a “ROMA2024”. In questo modo il marchio si compattata meglio. E questo appunto è già a metà strada tra il tecnico e il personale. Forse, per ragioni legate alle tendenze di oggi che privilegiano una grafica “flat”, si potevano evitare le sfumature. Il font è lo stesso di “Roma per il Giubileo”, si vede che hanno acquistato la licenza :-D
Poi, se proprio vogliamo essere pignoli all’eccesso, otticamente si poteva centrare meglio.
Tieni presente che tutti gli appunti e le considerazioni vengono fatte su un lavoro già fatto, come dire “siamo tutti designer con il loghi degli altri”. Per questo devi prendere le mie parole come uno spunto personale che non è la verità assoluta. :-)
Ti ringrazio ancora per l’attenzione e ti auguro una buona domenica