Il naming è quella parte del marketing che studia la scelta dei nomi per prodotti, servizi e aziende. Il successo di una marca passa anche attraverso l’individuazione di un nome vincente. Esso costituisce la memoria stessa di un prodotto e di un’azienda definendone il positioning. Nel caso di multinazionali, o con una gamma di prodotti e servizi venduti in una pluralità di mercati geografici, la scelta del nome deve essere più studiata e ragionata. In questo caso dovrebbe essere facilmente pronunciabile, indipendentemente dalla lingua, e dovrebbe rispettare le caratteristiche socio-culturali di ogni Paese senza generare ambiguità di significato. Una scelta errata o superficiale può essere causa di equivoci, riflettendosi negativamente sulle vendite del prodotto e sull’immagine dell’azienda.
Intuito, creatività e, talvolta, un approccio più scientifico, sono elementi fondamentali nella scelta del nome e le tendenze non sono mai mancate. Alcuni nomi sono diventati famosi per la bontà del prodotto altri hanno segnato una tendenza andando ad indicare addirittura una tipologia di prodotto. Il nome dei prodotti igienici di carta della Kimberly-Clark, ad esempio, fu inventato nel 1924 e deriva dalla parola inglese “clean” (pulito) con l’aggiunta del suffisso “x” (pronunciato “ex”), molto diffuso nei nomi di molti prodotti negli anni ’20. L’iniziale “K” probabilmente era un richiamo all’iniziale di Kimberly. Il nome Kleenex è diventato famoso al punto da identificare “i fazzoletti di carta” al pari dello Scottex che incarna la “carta da cucina” per definizione. Altro esempio. Nel 1957 il grafico Max Huber realizzò le insegne dei punti vendita della neonata “Supermarkets Italiani S.p.A.”. Si trattava della parola “supermarket” che aveva una lunga “S” iniziale. I supermercati iniziarono a essere identificati con la “esse lunga”, al punto che presto il nome della catena fu cambiato prima in “Esse Lunga”, poi nell’attuale “Esselunga”. E potrei citarne altri. Ma voglio soffermarmi su un caso di naming che da tempo ha segnato una nuova tendenza. E non parlo tanto di naming, quanto di parti del nome. Anzi una lettera soltanto: la “i”. Da molto tempo ormai la “i” campeggia come prefisso di molti nomi dei prodotti hardware e software di casa Apple. Un primo assaggio di nome con iniziale minuscola si ebbe nel 1994, quando introdusse eWorld, un servizio on line che chiuse dopo meno di due anni. Poi venne iMac, a cui sono seguiti iTunes, iPod, iCal, iChat, iBook, iPhone, iLife, iWork, fino ad arrivare al sistema operativo iOS e chissà quanti ancora. Bisogna ammetterlo, funziona e ha fatto tendenza creando un nuovo filone di brand name e un proliferare di imitazioni. Nei casi più estremi diventa addirittura uno slang. E per gli altri? Che senso ha imitare Apple? È trendy? Trasmette tecnologia e innovazione? È un vezzo per strizzare l’occhio ai più giovani? Boh, sarei curioso di saperlo.
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