Quando ormai sembrava spenta l’eco della polemica sulle candidature italiane alle Olimpiadi Invernali del 2026, che hanno visto “litigare” Torino, Milano e Cortina d’Ampezzo (e prevalere le ultime due), ecco riaccendersi il dibattito alla presentazione del marchio della candidatura.
Ovviamente, da torinese, mi riesce difficile restare indifferente e obiettivo e giudicare questo marchio senza cadere nel campanilismo. Avevo anche abbandonato l’idea di scrivere questo post ma mi è stato suggerito di finirlo ugualmente. Proverò a essere il più neutrale possibile, anche in virtù del fatto che questo marchio è stato già abbondantemente massacrato, come tutti quelli che vengono esposti alla pubblica gogna dei social network. L’esercizio della critica è molto difficile, soprattutto perché il confine tra l’aspetto tecnico e quello legato al gusto personale è molto sottile e spesso la critica sfocia in un attacco.
Anyway, sgombriamo il campo da qualsiasi dubbio: a me il marchio non piace. Chi l’avrebbe detto? Ma questo non significa nulla, perché il fatto che un marchio non incontri il nostro gusto personale non significa che non possa svolgere la sua funzione. Che poi non piaccia a un designer ha (di solito) un peso maggiore rispetto a chi designer non è, perché il “non mi piace” può essere supportato da argomentazioni di tipo tecnico che in teoria dovrebbero essere meno attaccabili di quelle estetiche. Avevo già avuto modo di esprimermi in occasione della presentazione del marchio per la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024, ribadisco le mie considerazioni. Dal punto di vista estetico e formale ognuno di noi, professionisti e non, in virtù della propria esperienza, sensibilità, percorso professionale e gusto, avrebbe realizzato il marchio in modo diverso e, in assoluta buona fede mista a egocentrismo, ognuno di noi pensa di avere la soluzione migliore per risolvere quel marchio. Da un punto di vista tecnico ed esecutivo ci sono delle regole sulla composizione visiva che andrebbero rispettate. Ma il condizionale è d’obbligo perché oggi sembra che valga un po’ tutto.
Entrando nel merito della questione, faccio ancora una volta una precisazione perché scorrendo i commenti sulle pagine social mi è sembrato che qualcuno facesse ancora confusione. Il marchio della città candidata e quello della manifestazione sono soggetti a valutazioni diverse perché hanno una funzione diversa. Il primo ha un ruolo tecnico-istituzionale e una valenza poco più che formale. Serve a identificare, a un ristretto gruppo di persone (il Comitato Olimpico Internazionale), il comitato promotore della candidatura della città e non costituisce in alcun modo titolo di preferenza. Io, ad esempio, non lo presenterei neanche o comunque non gli darei tutta questa enfasi rispetto all’atto della candidatura.
Diverso è il discorso del marchio ufficiale della manifestazione, che ha un valore sportivo e commerciale, si rivolge al pubblico mondiale e deve essere “attraente” per gli sponsor.
Anche per le analisi del marchio Milano-Cortina valgono le considerazioni che feci all’eopca per Roma, anche perché sostanzialmente il soggetto utilizzato come elemento grafico è il medesimo: il monumento più rappresentativo della città.
Detto ciò, bisogna considerare almeno un paio di aspetti, distinti ma legati tra loro. Uno riguarda ciò che il marchio vuole trasmettere (il concept) e l’altro come lo trasmette (il design). Dal punto di concettuale il marchio Milano-Cortina è corretto. È semplice, diretto e didascalico, oserei dire quasi banale. Tutto nella migliore tradizione italiana. È già visto? Già usato? Che importa, funziona. Con poco tempo a disposizione per presentare la candidatura si è preferito andare sul sicuro, restare nella comfort zone e partorire un’idea all’interno del Palazzo.
Dal punto di vista del design pecca di alcune ingenuità: tratti e aree troppo sottili, un senso di vuoto al centro del duomo, che aumenta se il marchio viene ingrandito; particolari che si perdono in fase di riduzione e un senso generale di incompiuto. Dalla città che si autodefinisce capitale del design ci si aspettava un guizzo.
Ma la cosa che colpisce di più di questo marchio e di tanti altri concepiti negli ultimi anni, è la sensazione che siano tutti figli dei vettoriali di Shutterstock. Non c’è progettualità. Non c’è l’idea che prende vita da uno scarabocchio. Per carità, scagli la prima pietra chi non ha mai disegnato un logo affidandosi in tutto o in parte a una risorsa già pronta. Nell’era frenetica in cui viviamo è quasi necessario, però non si può negare che così viene a mancare una dote fondamentale per un marchio: l’identità. Per dirla fuori dai denti e fare del sano campanilismo, col marchio equivalente Torino 2006 non c’è partita.
Quel marchio è stato realizzato da Giorgetto Giugiaro esattamente vent’anni fa e se venisse presentato oggi farebbe ancora la sua bella figura. Tanto è vero che per certi versi è più bello di quello creato per la manifestazione. E a dispetto di quanti oggi dicono che sia vecchio, rigido e industriale in senso negativo, io dico sì! È tutto quello ed era giusto che fosse così, perché quel marchio rappresentava Torino, quel marchio era Torino, trasudava torinesità e rigore sabaudo e aveva molto più appeal e carattere di quello proposto oggi da Milano che in ogni caso, per la finalità a cui è destinato, svolge dignitosamente il suo dovere.
E per finire, una considerazione gni gni: nella versione che ho visualizzato io i cerchi olimpici sono sbagliati nella loro concatenazione. Sai, la fretta.
Se volete fare scorpacciata di marchi olimpici e farvi un’idea della loro evoluzione potete consultare un articolo in cui il grande designer Milton Glaser ha passato in rassegna i marchi dei Giochi, da Parigi 1924 a Bejing 2022. Per la cronaca il marchio Torino 2006 (non quello sopra) ha preso 40/100. Trovate tutto qui.
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