Questo post non vuole essere uno spot gratuito alla Apple.
Non ne ha bisogno. Né il mio parere è così autorevole da orientare comportamenti d’acquisto di una quantità considerevole di persone.
È innanzitutto un tributo al genio di Steve Jobs e un ringraziamento per essersi preso la responsabilità di interpretare il cambiamento dell’information technology, con tutto ciò che ne è conseguito, nel bene e nel male. Non solo. Steve Jobs ha contribuito al cambiamento importante di molti settori di attività come la musica, l’informatica, la telefonia, i film di animazione e l’editoria digitale.
I computer Apple hanno migliorato il mio approccio alla progettazione grafica, permettendomi di colmare col tasso tecnico il gap artistico rispetto a chi aveva studiato arti grafiche nelle scuole superiori, uscendone con un background più solido del mio. Io ho vissuto in pieno a cavallo della svolta epocale dal tutto a mano al tutto a monitor.
Mio malgrado appartengo più alla seconda fase. La prima non l’ho né vissuta né studiata ma solo conosciuta a posteriori documentandomi e studiando autonomamente.
Tutto ciò, se non ha costituito un handicap ha comunque installato in me una sorta di complesso di inferiorità rispetto ad altri grafici “più grafici” di me. Complesso che mi sono portato a spasso per molto tempo. Basti pensare quanto ci ho messo a trovare il coraggio di appoggiare le parole Art Director sul mio curriculum. Oltretutto, ho pagato a caro prezzo il dazio dell’inesperienza e delle vicissitudini personali. Ho perso tempo. All’età in cui (finalmente) ho messo piede in un’agenzia di pubblicità, altri miei coetanei erano già art senior se non direttori creativi.
Grazie al Mac, è migliorato anche il mio rapporto con lo strumento “computer”. Solitamente la tecnologia non muove il cuore ma l’amore che Jobs metteva nei suoi prodotti traspariva, diventando contagioso. Rispetto al PC avevo a disposizione una macchina decisamente più affidabile e piacevole da usare, con cui potevo concentrarmi sul lavoro senza preoccupazioni. Sul Mac, tutto aveva una logica e un senso in ogni operazione, anche la più elementare, e la macchina rispondeva sempre in maniera pronta ed efficace. Come ci si aspettava che accadesse. Era la rivoluzione del WYSIWYG.
WYSIWYG è un termine prettamente informatico ed è l’acronimo dell’espressione inglese What You See Is What You Get, tradotto letteralmente “quello che vedi (a video) è quello che ottieni (in stampa)”. Sostanzialmente è riferito al problema di ottenere sulla carta testo e immagini che visualizziamo sullo schermo del computer. Nell’ambito dell’utenza domestica i primi software e le stampanti erano piuttosto spartani e non davano risultati soddisfacenti. Grazie ad Apple e allo sviluppo di Adobe Type Manager, con l’introduzione dei caratteri TrueType il problema viene superato e si apre una nuova fase nello sviluppo delle interfaccia utente, che arriverà al livello di fedeltà di oggi.
Il mio primo contatto visivo e tattile con un Mac avvenne nel 1989. Come spesso accade in certe storie d’amore destinate a durare per sempre, non fu amore a prima vista.
In quegli anni nelle scuole il verbo era MS-DOS, BASIC e PASCAL e imperavano gli Olivetti M24 e M28 (quando la Olivetti era un’azienda in ascesa) e i primi IBM con scheda EGA a 16 colori. Ricordo con emozione quando nel laboratorio di Informatica arrivò il primo 80-286 IBM a colori. Dopo anni di monitor monocromatici, per noi studenti fu una conquista. Finalmente potevamo giocare a Test Drive a colori!
Credevo fosse il massimo a cui poter aspirare in fatto di PC.
Non conoscevo ancora la storia di Apple. Ero uno studente di informatica con il desiderio represso di fare il grafico.
In una domenica primaverile, vengo invitato da un’amica alla sua festa di compleanno. Era una fanciulla che conoscevo in quanto amica della fidanzata di un mio compagno di classe.
Organizzò la festa per pochi intimi nell’ufficio di suo padre, un ampio open space, seminterrato ma decisamente luminoso grazie al bianco che imperava ovunque, dalle pareti ai tavoli. Doveva essere uno studio di architettura o di design, data la massiccia presenza di tecnigrafi. Inutile dire che, appena entrato, mi sono sentito a casa. Progetti su carta da lucido arrotolati che spuntano dai mobiletti, abbozzi di idee schizzate e lasciate a “decantare” sui tavoli, squadrette e matite ovunque, file ordinate di Rapidograph facevano bella mostra di sé su ampi tavoli. Non ne avevo mai visti così tanti tutti insieme, dato il costo proibitivo. L’odore della carta e degli inchiostri inebriava l’aria intorno a me.
Mentre mi aggiravo in questo paradiso delle arti grafiche come un bambino in un negozio di giocattoli, con la pizzetta in una mano e la Coca Cola nell’altra, quasi ignorando le fanciulle e gli altri invitati, a un certo punto vengo attratto da un computer. Lo confesso, all’epoca ero un po’ un nerd.
Buttai in bocca la pizzetta.
Appoggiai sul tavolo la Coca Cola e mi sfregai le mani per eliminare le briciole di pizza e i pezzetti di pomodoro attaccati alle dita. Mi piazzai davanti all’oggetto, come il pianista che siede davanti al pianoforte pronto per eseguire un brano, con tanto di schiocco delle dita.
Era diverso dai soliti computer con cui avevo a che fare tutti i giorni. Era più bello. Non era un catafalco come l’Olivetti M24, era più snello, aveva un colore quasi bianco, leggermente virato sul grigio/beige, che faceva risaltare il marchio con la mela impresso sugli angoli, all’epoca ancora a stripes colorate.
Era un Apple II GS.
CPU è l’acronimo di Central Processing Unit, ovvero il processore centrale. Spesso noi studenti (e non solo), per semplificare eravamo soliti indicare come CPU tutto il case del computer, desktop o tower che fosse, comprendendo anche il disco rigido e le varie schede. Oggi si usa dire “la macchina”, molto Stephen King.
Ne apprezzai innanzitutto il design, decisamente più affascinante dei PC (il floppy disk è esterno alla CPU). Anche al tatto le plastiche utilizzate per il case mi davano l’idea di un prodotto più curato.
Poi il mouse, un oggetto sino ad allora a me sconosciuto ma con cui familiarizzai immediatamente, nonostante la posizione mi obbligasse a utilizzarlo con la mano destra. Ero molto curioso. Mentre stavo ancora masticando il pezzo di pizza piuttosto ingombrante, avanzai una richiesta a bocca semi piena alla mia amica:
«Sabry posso accenderlo?»
«Sì, fai pure ma fai attenzione che è di mio padre, se gli succede qualcosa mi ammazza. E io ammazzo te!».
Recepii il messaggio mi avvicinai con timidezza e lo accesi con circospezione.
Sorpresa: non trovavo il tasto di accensione.
Lo cercavo dove pensavo che fosse, dove mediamente tutti i computer ce l’avevano. Prima a tentoni, poi andando proprio a vedere dietro la CPU.
Eh sì, non mi ero minimamente accorto che era sulla tastiera. Soluzione tanto bizzarra quanto intelligente. Di sicuro una novità. Osservai il bootstrap (l’avviamento) e vidi materializzarsi ai miei occhi un’interfaccia utente completamente diversa da quella che ero abituato a utilizzare. Non più uno scorrere di scritte bianche su uno schermo nero (che se tutto andava bene finivano con la tristissima scritta “C:\>“) ma una schermata completamente bianca (che dopo compresi essere il desktop), l’icona (altro elemento che ignoravo) del disco rigido in alto a destra e del cestino in basso. Trovai tutto al tempo stesso bizzarro ma molto intuitivo.
Mi avventurai in qualche domanda alla festeggiata, nonché padrona di casa. Sostanzialmente una:
«Cos’è sta roba?»
«È un Macintosh!» rispose Sabrina dall’altra parte dello studio sgranocchiando patatine.
«Macintosh?»
«Sì. È un computer della Apple, è un sistema diverso da quelli che usate voi. Invece di scrivere si fa tutto col mouse. Ma non chiedermi altro perché non ci ho capito un cazzo e non lo so usare. E tu non fare casino se non lo conosci!»
«Però! Che recensione! Hai mai pensato di fare la venditrice in un negozio di computer? Hai un futuro.»
«Vai a cagare! Vado al liceo classico, non me ne frega una mazza dei computer!»
Non avendo ricevuto una risposta soddisfacente, tanto meno una confacente a una fanciulla che frequenta il classico, decisi di giocare un po’ col mouse per vedere se effettivamente si poteva fare tutto. In realtà aprii e chiusi qualche finestra e scorsi i menù a tendina, giocai con la calcolatrice e il puzzle ma ignorando l’esistenza delle applicazioni non riuscii a combinare niente che appagasse la mia curiosità, abituato com’ero al fatto che per far fare qualcosa al computer dovevo scrivere una interminabile stringa di testo. Lì non avevo apparentemente niente per scrivere e mi sentivo perso.
Che ciuccio. Non avevo compreso la genialità della cosa. Invece di scrivere dir o dir/p per visualizzare il contenuto di un disco bastava cliccare due volte sull’icona e appariva il contenuto del disco; e per copiare un file bastava trascinare la sua icona su un’altra cartella invece di digitare il comando copy. Non avevo capito una mazza. O meglio, ero troppo assuefatto alle dinamiche di MS-DOS per capire che quella sarebbe stata una svolta nell’interazione tra uomo e computer.
In realtà a scuola cominciava a circolare la voce dell’esistenza di Windows (uuh, ho i brividi solo a scriverlo) come di un’interfaccia grafica “a finestre” che girava sotto DOS ma lì per lì non gli diedi molto peso.
Memore della minaccia della mia amica spensi il Mac per paura di fare danni e rimossi l’esperienza rimettendomi a mangiare e dedicandomi questa volta anche alle fanciulle presenti alla festa, inconsapevole che un paio d’anni più tardi quel computer, sotto forma di un modello nuovo e notevolmente più evoluto, si sarebbe ripresentato davanti ai miei occhi diventando il prolungamento delle mie mani. Soprattutto, di lì a poco si sarebbe scatenata una vera e propria lotta di religione che avrebbe contrapposto da un lato gli adepti del Mac, espressione di una minoranza elitaria all’interno di una nicchia, e dall’altro i devoti del DOS/Windows, che erano una larga maggioranza.
Una di quelle diatribe destinate a durare in eterno.
Da quando sono finalmente riuscito ad abbracciare il mondo della grafica e farne la mia professione, i computer e gli altri dispositivi Apple venuti in seguito, non mi hanno mai abbandonato. Nel senso letterale del termine. L’unica volta che ho avuto un problema con un Mac è stato quando me l’hanno rubato.
Ringrazio Steve Jobs per aver reso la rivoluzione dell’information technology divertente, intuitiva e ricca di fascino. Anche troppo, se consideriamo gli effetti che sta avendo sulla nostra professione.
Lo ringrazio 22 volte, tanti quanti sono i gioielli che ho utilizzato in questi 24 anni, una parte dei quali conservo come cimeli.
Sinceramente ora come ora non riesco a immaginarmi mentre entro in un negozio di computer e chiedo a un commesso «Buongiorno vorrei comprare un ASUS…» o qualsiasi dispositivo non Apple.
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