Payoff s. m. Il termine inglese deriva dal lessico economico e significa “liquidazione” o “saldo finale”; da qui l’accezione che nel nostro settore viene declinata come chiusura di un messaggio. Può essere descrittivo, cioè per esempio spiegare qual è l’attività dell’azienda o del prodotto abbinati alla marca, oppure evocativo nel caso debba comunicare una messaggio emozionale. Non è uno slogan e non deve essere usato come tale. – Fonte: brand-identikit.it
È dall’avvento della televisione commerciale che gli slogan pubblicitari combattono per entrare nelle nostre menti e nei nostri cuori con lo scopo di farci aprire i nostri portafogli. E alcuni di questi, insieme ai brand che accompagnano, hanno avuto una profonda influenza sulla nostra cultura e sulla nostra vita.
Ma nel contesto della comunicazione c’è un’altra “frasetta” che sembra starsene lì in disparte ma che ha un ruolo preciso e importante, spesso sottovalutato: il payoff.
Nell’ambito della comunicazione il payoff, da non confondere con lo slogan (e il claim) ha un compito ingrato: riassumere in una frase semplice e sintetica l’essenza di un prodotto o la mission di un’azienda. Un annuncio pubblicitario può colpire l’iimmaginario del target con immagini e concetti articolati, il payoff ha poco spazio e poche parole per farsi ricordare. Ciò non significa che sia di poca importanza, tutt’altro.
Questa frase piccola e defilata, a cui l’utente medio dà poca rilevanza, è un segno costante della comunicazione e vive appiccicato al marchio aziendale, o di prodotto, in qualsiasi contesto venga utilizzato. Talvolta ne diventa parte integrante. In casi estremi diventa addirittura brand, pensiamo ad esempio a “UNITED COLORS OF BENETTON”.
Slògan s. m. [dall’ingl. slogan ⟨slóuġën⟩, voce scozz. (slogorne o sloghorne), e questa dal gaelico sluaghghairm «grido di guerra», comp. di sluagh «esercito» e gairm «grido»]. – Breve frase, incisiva e sintetica, per lo più coniata a fini pubblicitarî o di propaganda politica, che, per ottenere un effetto immediato ed essere facilmente memorizzabile, si avvale spesso di accorgimenti ritmici, della rima, di assonanze o allitterazioni, oppure è esemplata secondo lo schema usuale dei proverbî: inventare, lanciare uno s.; s. elettorali, pubblicitarî; i manifestanti percorrevano le vie del centro scandendo slogan di protesta. – Fonte: treccani.it
Un buon payoff deve essere sintetico, semplice da capire e da ricordare e nella prospettiva di accompagnare il marchio per molto tempo, deve essere pensato e scritto immaginando tutti gli usi che se ne potranno fare in futuro. Un’operazione complessa, che a volte finisce col dare vita a concetti terribilmente banali o forzatamente retorici.
In italia ci sono aziende che considerano il payoff quasi un obbligo. Ritengono che nella maggior parte dei casi sia assolutamente inutile, una ridondanza che non aggiunge nulla al messaggio, e a cui il lettore dà poca o nessuna attenzione. Quando glielo proponi ti guardano come se gli stessi parlando di meccanica quantistica. Altre invece lo cambiano in maniera compulsiva. Non fai in tempo ad assimilarne uno che già ne hanno sfornato un altro. Risultato: un brand schizofrenico senza personalità. Altre ancora, sull’onda del successo delle multinazionali, si lanciano in payoff in inglese. Così, per darsi un tono. Magari non hanno neanche un mercato estero però l’inglese “è figo”. Dà quel tocco di internazionalità e autorevolezza. È una lingua molto più sintetica e immediata, nonché la più utilizzata per la comunicazione di respiro internazionale.
Ma il payoff, per essere efficace, andrebbe tradotto nella lingua di ciascun paese? Dovrebbe restare nella lingua del paese “d’origine” del brand? O parlare salomonicamente in inglese?
Se è vero che deve riassumere l’universo che ruota intorno ad un brand (azienda o prodotto), esprimendone la mission, filosofia e valori, forse è giusto che parli la lingua dell’azienda anche fuori dai propri confini. Se poi la strategia di marketing obbliga ad una traduzione, è bene che questa richiami il più possibile il concetto espresso in lingua originale, nel rispetto degli usi e della cultura del paese di destinazione, senza essere ridondante o tradotto letteralmente. Penso ad esempio a “Enjoy the Coke side of life” che da noi era diventato “Vivi il lato Coca Cola della vita”, risultando un po’ prolisso e macchinoso.
Certo, non mancano le eccezioni, come BMW (Piacere di Guidare, diventato oggi Designed for driving pleasure) e Audi (All’avanguardia della tecnica che è la traduzione letterale di Vorsprung durch technik) che si sono imposte sul mercato italiano con claim in italiano.
Non mi sorprende che marchi internazionali non traducano il loro payoff ma piuttosto ciò che significa per loro quell’espressione. Penso ad esempio a Citroën (Créative Technologie), Opel e Volkswagen, Sector (No Limits) o Nike, il cui payoff rimane, insieme a quello di De Beers (Un diamante è per sempre), uno dei più longevi nella storia della pubblicità, grazie anche al fatto che, per volontà aziendale, non è mai stato tradotto.
Per capire cosa c’è dietro e quanto sia importante quella “frasetta” che accompagna il marchio in comunicazione può essere utile vedere tutto ciò che riassume. Ho attinto a piene mani dal mondo automotive. È in parte casuale e in parte voluto.
Nata nei primi anni ’80 per contrastare la leadership di Reebok, l’espressione “JUST DO IT” venne ideata all’ultimo momento dal copywriter Dan Wieden prima dell’incontro decisivo con il cliente. A testimonianza che in comunicazione non si potrebbe concludere nessun lavoro se non ci fosse “l’ultimo momento”. La frase, che si traduce in italiano con “fallo e basta”, deriva da una risposta pronunciata da un condannato a morte negli Stati Uniti. Quando un attimo prima dell’esecuzione gli venne chiesto se volesse pronunciare le ultime parole, questi pregò i carnefici di mettere fine alle sue sofferenze con la frase: “Let’s do it“, “Facciamolo”. Wieden sostituì “Let’s” con “Just”, et voilà, il gioco è fatto. Se ci mettiamo pure che il segno grafico (il celeberrimo Swoosh) costò all’epoca 35 dollari possiamo affermare che in Nike hanno avuto una bella botta di culo.
Nei supporti di comunicazione Nike si è imposta all’attenzione del pubblico con questo payoff che negli anni è diventato brand, a testimoniare una sorta di certificazione d’origine del prodotto unita all’orgoglio nazionale.
E Adidas in qualche modo ci gira intorno col suo “Impossible is nothing“, un’affermazione che in un ipotetico discorso potrebbe precedere just do it. Come dire “Non c’è nulla di impossibile, fallo e basta”.
Opel – “Wir leben Autos”: Noi viviamo l’auto.
Tre semplici parole in grado di esprimere la filosofia e i valori che hanno accompagnato Opel per oltre 100 anni, e che oggi, grazie alla quantità e varietà di progetti in cantiere, permettono di trasmettere la passione dell’azienda nei confronti dell’auto. Impegno e passione profusi si ritrovano in ogni singola auto prodotta, coniugando qualità costruttiva, piacere di guida e tecnologia applicata. Ovviamente tedesca.
Volkswagen – “Das Auto”: L’Auto.
Credo sia l’unico caso (di cui ho memoria) in cui un payoff si sia rivoltato contro il brand, con un effetto boomerang abbastanza forte. L’espressione perentoria, rafforzata dal punto fermo alla fine, non lascia dubbi. A testimonianza del fatto che solo quando un’auto definisce un’epoca è “l’auto”. Questo payoff riassumeva perfettamente lo stereotipo di affidabilita e superiorità storica e tecnologica delle auto tedesche. Anche il tono usato dallo speaker alla fine dello spot era molto secco e deciso, autorevole. Quasi autoritario. Lo scandalo sulle emissioni di CO2, oltre ad aver assestato un colpo all’inappuntabile e quasi un po’ stucchevole supremazia tedesca, ha suscitato molta ilarità intorno a questo claim, una battuta su tutte: Gas Auto. Da qui credo che sia nata la decisione di Volkswagen di togliere il payoff dal marchio e orientare la nuova comunicazione buttandola sui sentimenti.
Seat – “Technology to enjoy”.
Siamo Spagnoli e Tedeschi. Siamo appassionati perfezionisti. Ci emoziona la tecnologia. Tutto quello che sappiamo è tutto quello che senti. Diamo al design un obiettivo. Diamo vita alla tecnologia. Noi lo chiamiamo TECHNOLOGY TO ENJOY. Noi siamo SEAT. Questo payoff ha recentemente sostituito il patriottico ma evidentemente poco efficace “autoemocion“.
Ford – “Go Further”.
Andare oltre, è la “Promessa Globale” Ford. Queste due parole, hanno un significato particolare per il leader mondiale del settore automobilistico, perché sono alla base dello spirito di OneFord. Le tecnologie, sono nate per migliorare la vita e sicuramente quelle inserite nelle vetture Ford hanno questo scopo principale ed è proprio qui che Ford vuole vedere quanto siete disposti ad andare oltre.
Mercedes Benz – “The best or nothing”.
Beh, si commenta da sé. Molto autoreferenziale. La casa di Stoccarda vanta una lunga tradizione nel campo dell’innovazione tecnologica e i clienti si aspettano sempre il meglio. Il nuovo payoff riflette i valori del brand: fascino, responsabilità, perfezione e Mercedes intende offrire il top in ogni campo: ricerca, sviluppo, produzione, vendita, assistenza e post-vendita.
Renault – “Passion for life”.
Renault racconta la sua profonda trasformazione in una promessa di marca sempre più vicina alle persone, figlia dei concetti di “vita” e “vitalità”, già presenti negli anni ’80, e che oggi vengono richiamati dal nuovo payoff (che sostituisce “Drive the change“) che si riflette in una gamma di veicoli completamente rinnovata.
C’è da dire una cosa. Il payoff negli anni ha perso un po’ della sua importanza e c’è chi afferma che sia prossimo al pensionamento, che faccia ormai parte di un’epoca chiusa. Brand come Amazon, Google o Starbucks non ne fanno uso. La comunicazione al tempo del digitale e della “social addiction” richiede flessibilità e velocità. Le campagne durano pochi mesi, il mercato muta in modo compulsivo così come i bisogni dei clienti sempre più distratti e bombardati da messaggi di ogni genere. Con strategie fatte a breve termine gli slogan pensati per durare hanno sempre meno valore.
Forse, più che discutere sulla morte del payoff bisognerebbe ragionare su un suo diverso utilizzo. La formula dell’imperativo e del “sono figo”, presente in molti slogan autoreferenziali di molte marche, sta lasciando spazio a messaggi che cercano di coinvolgere emotivamente il consumatore. Ad esempio la già citata Renault è passata da “Creatori di automobili” a “Drive the change” per finire a “Passion for life“.
Slogan come “Perché io valgo” di L’Oréal o l’ultimo di Coca Cola, “Taste the feeling“, dimostrano la forza dell’inclusione.
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