Qualche giorno fa un mio contatto di Facebook ha portato alla mia attenzione (e non solo) un post del blog officineeinstein, scritto da Alessandro Ghezzi. In questo post è stato ripreso un mio commento pubblicato in un topic che discuteva del risultato del contest per la creazione del marchio per la promozione della città di Firenze e, nello specifico, del marchio vincitore. Innanzitutto lo ringrazio per la citazione. In quel topic i commenti (di colleghi più o meno famosi) non sono stati certo teneri e devo ammettere che alcuni erano molto più caustici dei miei. Non voglio dilungarmi sul marchio vincitore del contest – e nemmeno voglio farlo vedere – perché si è discusso fino alla noia. Credo però che il post sia meritevole di una risposta, o per lo meno di una precisazione, che purtroppo non ho avuto il tempo di fare subito e che faccio ora con colpevole ritardo. Alessandro ha ripreso il mio commento più tagliente che andava oltre il giudizio tecnico ed estetico del lavoro. Forse proprio in quel topic, avevo espresso un commento più da addetto ai lavori, ovvero che (secondo me) il marchio scelto per la città di Firenze mancava di personalità, mi parlava poco di Firenze e che l’impianto grafico era adattabile a qualsiasi città. La fuffa con cui la giuria ha motivato la scelta del marchio vincente è da oscar: “…Il primo tratto di originalità e di forza della proposta sta nel suo essenzialismo comunicativo: un quadrato, entro cui è allineata la sequenza delle versioni del nome della città nelle lingue più parlate nel mondo, costruisce un cruciverba visivo immediato e certamente accattivante, che restituisce il nome e la suggestione di Firenze…”. Chapeau.
Nel suo post Alessandro ha preso spunto da questa discussione, includendo altri contest, per porre l’attenzione su una sorta frustrazione e insoddisfazione che oggi affligge creativi, designer e tecnici che lavorano nel mondo della comunicazione visiva. In particolare, mette in risalto la “cattiveria” dei commenti per il risultato di certi contest (indetti soprattutto da pubbliche amministrazioni) che hanno visto premiati lavori graficamente e concettualmente discutibili.
Non so se Alessandro attribuisca solo a questi concorsi il malcontento che serpeggia tra i grafici, per lo meno dal suo post traspare questo. In ogni caso ci sono delle considerazioni a monte. Credo che la nostra insoddisfazione nasca innanzitutto dal fatto che la nostra professione, negli anni, ha perso molta della sua importanza e autorevolezza. Strumenti e competenze che una volta erano patrimonio di pochi professionisti, oggi sono diventati di pubblico dominio. Questo processo di democratizzazione (che va a braccetto con la semplificazione di tecnologie e procedure di lavoro complesse), ha prodotto creativi scontenti e clienti saccenti, oltre ad aver cancellato figure professionali intermedie tra chi pensa il lavoro e chi materialmente lo esegue. La creatività non è più un valore. I clienti non la considerano e non la pagano. C’è persino un po’ di imbarazzo a inserirla nei preventivi. Basta vedere i bandi di gara: il punteggio più alto, ai fini dell’assegnazione, non è dato alla creatività ma al preventivo economicamente più vantaggioso.
I commenti caustici sui risultati dei contest sono solo la punta dell’iceberg dell’insoddisfazione che alberga dentro di noi. È una sorta di valvola di sfogo della nostra sofferenza per una situazione che, personalmente, preoccupa per il trend negativo che sta seguendo. L’accanimento nei giudizi verso i lavori dei colleghi non è tanto indirizzato ai colleghi stessi quanto piuttosto al metodo con cui vengono assegnati certi progetti e al modo di fare di certi clienti. Poi, alla luce del risultato non brillante, c’è anche la critica diretta al progetto svolto. Nei giudizi, spesso negativi, c’è tutta la rabbia di chi sa di avere una professionalità e una competenza che non può o non riesce più a esprimere come vorrebbe, perché non si è più nelle condizioni di lavorare in maniera ottimale. Per onestà devo dire che ci sono anche giovani creativi che dovrebbero tirarsela un po’ meno. Anyway, il problema non è il contest farlocco o il marchio brutto (o copiato) che vince una gara. I veri problemi sono altrove, e credo che Alessandro lo sappia benissimo. Sono i clienti che non pagano e umiliano il nostro lavoro. Altri che ti fanno lavorare gratis. Clienti che non ti pagano dicendo che il prestigio di lavorare per loro è già di per sé una grossa ricompensa. Come se io andassi in banca e dicessi al direttore che non gli pago il mutuo ma gli concedo il privilegio di avermi come correntista. Ci sono brand manager frustrati che giocano a fare i creativi ma non sanno scrivere un brief, che invece di analizzare i fogli di excell installano photoshop sul loro portatile imponendo le loro idee bizzarre. Persone che fanno tutt’altro nella vita e un bel giorno decidono che per arrotondare lo stipendio fanno siti internet, o ancora le pubbliche amministrazioni che invitano venti agenzie ad una gara per un flyer bianca e volta. Per non dimenticare l’amico/nipote che si diletta con di grafica e fotografia. E potrei andare avanti per ore. Sembra che la nostra professione abbia il potere magico di riscattare vite monotone e fallimenti professionali. A questo, si aggiunge la moda degli ultimi tempi di promuovere contest pubblici o affidarsi alle piattaforme di advertising “user generated” in cui trovi di tutto, dal professionista della comunicazione alla casalinga annoiata. Con il massimo rispetto per le casalinghe. In questo modo le differenze nelle competenze professionali sono azzerate e vale tutto. Il cliente è contento perché non spende 5000 euro per un’idea ma, in proporzione, spende 1 euro per avere 5000 idee (vedi Firenze). E non è detto che venga premiata la migliore. Oggi, in questo marasma fatto di freelance e agenzie che arrancano e grafici dell’ultima ora che non possiedono i requisiti tecnici, economici e culturali per esercitare la professione, i clienti non sono culturalmente preparati e non sono dotati di gusto per apprezzare un lavoro fatto a regola d’arte. Senza trascurare il fatto che impongono tempi assurdi per realizzare progetti complessi. Oggi si fa un marchio in mezza giornata (compreso lo studio del naming) e una campagna in un giorno. La gente crede che avere la faccia un po’ stravolta, la barba incolta e il look vagamente trasandato sia il frutto del nostro estro creativo. Non è assolutamente vero. Siamo solo stravolti perché tiriamo a lavorare fino a tardi per farci venire l’idea del secolo e rispettare i tempi di consegna imposti dal cliente.Tutto questo caro Alessandro, è estremamente svilente e crea non poca incazzatura, perché non ci sono più regole né punti di riferimento. Come faccio a spiegare a un cliente che la creatività è un valore è va riconosciuta economicamente? Come faccio a giustificargli che deve spendere 1000 euro per realizzare uno scatto fotografico se per 2 euro si può comprare una foto simile su Shutterstock? Come faccio a far pagare un marchio 500 euro se su internet se lo può comprare per poche decine di dollari e con tutta l’immagine coordinata? Credi che gli freghi qualcosa che la stessa foto o lo stesso marchio se lo può comprare chiunque?
Se pensiamo che persino il marchio “Orgoglio Italia 2015” pare sia scaturito da una risorsa iStock (e chissà quanto sarà stato pagato), e stiamo parlando di un’istituzione nazionale, non del pizzicagnolo sotto casa, non stupiamoci se poi scoppia l’indignazione generale.
Non ho riletto.
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