Insieme ad alcune colleghe ho fatto una riflessione su cosa significhi essere un “figo”, o una “figa”. L’occasione ci è stata gentilmente offerta da un cliente, nella persona di una “donna marketing”, di quelle che userebbero un paragone con Gucci anche per definire la nuance del colore della deiezione di un cane. Motivo della chiacchierata, ovviamente, lo shopping. La nostra donna marketing motiva la scelta di un punto vendita perché, a detta sua, “ci sono le cose fighe dei marchi fighi”. Tradotto: ci sono prodotti stracari di brand alla moda, quindi, per forza di cose, fighi.
Ma cosa significa essere figo? Che cosa ci fa percepire qualcosa come “figo”? Teoricamente la risposta è il gusto misto all’etica, ma è un ragionamento troppo alto. In realtà, la risposta è legata alla superficialità di certe convinzioni legate all’esteriorità e alla ricchezza materiale. La follia dello shopping, ore passate davanti allo specchio o a discutere con una collega sulla lunghezza del tacco dello stivale, i disagi fisici e mentali, hanno un unico fine: far parte di questo meraviglioso mondo dei fighi. Sembra inconcepibile ma nel nostro Paese essere figa è una vera e propria professione. Prima ancora della vera professione. Segretarie, impiegate, sedicenti manager, hostess, cubiste e tronisti in realtà non fanno assolutamente nulla. Sono in ufficio per motivi puramente estetici, come una chaise longue di Le Corbusier. Che lavoro fai? “Faccio la figa. Vado in palestra, faccio shopping, frequento i posti fighi, la gente figa, e nelle ore che mi separano dall’aperitivo vado in ufficio per aggiornare la pagina di Facebook, Twitter, MySpace e se mi avanza tempo do da mangiare alle mucche su Farmville”. Una vera fatica. Non ti invidio. Premesso che ognuno è libero di fare ciò che vuole, nel mondo dei fighi, a uomini e donne non interessa conoscere persone, fare cose o visitare luoghi interessanti o dal valore storico-culturale rilevante. Tutto ciò che conta è la “fighitudine” che spesso si traduce in un tenore di vita superiore alle proprie possibilità, perché sono pochi quelli fighi che hanno le risorse economiche per esserlo. Ecco allora sfoggiare vestiti e accessori di marca, auto di lusso o supersportive e tutto ciò che attiene all’apparire, pur guadagnando poco più di 1.000 Euro al mese e mangiando pane e acqua. D’altro canto il loro ragionamento, se vogliamo, non è nemmeno sbagliato: “la gente si ricorda che auto guido e il vestito che indosso, non cosa mangio.”
E io che non sono figo? A Roma si dice “Je rode er culo”. Mi guardo bene dal’esternare le mie perversioni culturali, le ragioni per cui 200 euro li spendo per un libro di grafica piuttosto che un paio di jeans, o perché vado a vedere un concerto rock in una birreria piuttosto che parcheggiare in settima fila la Mini Cooper pur di averla “davanti” al Gran Bar. Capita di passare brevi periodi a contatto con i fighi. Dopo poco tempo, in cui bevo tanto per stordirmi, mi sembra di dare la sensazione di essere uno snob e pur di parlare di qualcosa con loro, fingo interesse nell’ascoltare i discorsi che parlano essenzialmente di fuffa, mostro stupore nell’apprendere il prezzo della borsa Vuitton acquistata la sera prima, metto in giro la voce che sto per cambiare la macchina, sperando un giorno, chissà, di diventare un figo anche io.
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